Nell'anno 1568 "si giocò al Ponte e a forza di sassate la vittoria fu de' cavalieri di Mezzo Giorno". Così inizia il repertorio settecentesco che traccia la più esauriente cronologia delle battaglie, desunta in gran parte da un libro di ricordi manoscritto di proprietà di Camillo Ranieri Borghi, e oggi andato perduto. Se dobbiamo ritenere valida questa prima notizia sembra importante fissare l'attenzione sia sulla presupposta data di nascita, che sulle modalità di esecuzione del Gioco. Entrambi questi elementi ci conducono infatti alla considerazione dell'ambito più vasto rappresentato dalla trasformazione dei giochi popolari e dalla nascita di nuovi giochi pubblici in età Cosimiana.
A Firenze l'armeggiamento con i sassi costituiva una pratica tradizionale delle Potenze, che fu oggetto di regolamentazione da parte di Cosimo I.
Il combattimento con i sassi si svolgeva con modalità che richiamano da vicino quelle della Battaglia del Ponte: " le Potenze che prendevano parte in questo genere di combattimenti, talvolta si dividevano in schiere e combattevano l'una contro l'altra, e quando una schiera piegava subitamente era spinta l'altra al soccorso"(Del Badia, 1876, p.14)
L'orientamento politico e culturale di Cosimo I nel settore dei giochi si manifestò dunque anche nell'introduzione del Gioco del Calcio nel rituale del Carnevale fiorentino (Mellini p.35). Anche il Calcio presenta per la sua struttura aspetti ed affinità con il Gioco del Ponte.
Infine non pare privo di ragioni l'accettare come data di inizio del Gioco del Ponte il 1568 o almeno gli anni dopo il 1560, durante i quali i soggiorni di Cosimo I a Pisa divennero particolarmente frequenti e continuati. A metà tra le forme del torneo e quelle del gioco popolare, il Gioco del Ponte presenta, già nelle prime edizioni documentate, una struttura codificata come quella del torneo ma nel contempo esso è fruibile immediatamente da parte di un pubblico più largo. Queste caratteristiche lo rendono adatto, in una città dominata, a soddisfare motivazioni e aspettative di matrice sociale e culturale diversificata.
Il 24 Aprile 1589 Cristina di Lorena faceva il suo ingresso nella città di Pisa. Per quell'occasione, per celebrare e festeggiare questa principessa "allevata nel mezo dell'armi", "una Battaglia del Ponte fu ordinata e messa ad effetto con tanta pompa, e splendore, quanta non si vedde giammai in questa città" (Cervoni, 1589, p.27). La preparazione di questa battaglia rivela un conflitto fra l'apparato celebrativo di gestione medicea e le competenze organizzative che la nobiltà locale si attribuiva. Le accoglienze che Pisa tributò alla nuova Granduchessa assumono le caratteristiche di un vero e proprio potlach per una città che solo l'anno prima aveva dovuto limitare le proprie spese per accogliere il Granduca. Lo stesso Ferdinando, in previsione dell'ingresso della sposa aveva lasciato intendere ai pisani "che per allora si contentava che la Comunità non facesse spesa veruna publica; ma che solo si contentava di una Battaglia di Ponte" (ibid., p.32). I danari che il Granduca si era offerto di elargire alla Comunità e ai privati per l'organizzazione della festa vennero rifiutati e i signori pisani "si risolverono a fare a tutte loro spese ciascheduno la sua squadra"(ibis).
Non solo dunque in questa edizione appare chiaramente che l'organizzazione del Gioco è basata sull'armamento privato, ma, l'elenco degli armatori fornito dal Cervoni, compaiono quasi esclusivamente nomi di gentiluomini pisani (Lanfranchi, Ceuli, Gaetani, della Seta, da Scorno...); i pisani erano pure, per la maggior parte, i condottieri e gli ufficiali delle varie squadre.
L'elemento dell'occasione festiva, con le sue caratteristiche d'invenzione e di dispendio, e quello della consuetudine sembrano fondersi in questa edizione, dove troviamo già consolidata le struttura del Gioco:Essa si presenta qui con elementi (mostra e cartelli di disfida che precedono il combattimento) destinati a ripetersi ma espressi ancora in una forma che ricorda da vicino quella del torneo. La divisione in squadre sembra prevalere su quella tra le fazioni di Borgo e di Banchi: ogni squadra appare fortemente individualizzata per l'elemento dell'invenzione che la caratterizza e per l'aggregazione che ognuna di esse intorno alla figura mitica che la conduce e che mantiene singolarmente la propria cavalleresca querela. Questo apparato preliminare è legato senza dubbio al carattere eccezionale dell'occasione e sembra contrastare e sovrapporsi alla battaglia vera e propria, dove le squadre si organizzano anonimamente nelle due fazioni conservando delle peculiarità unicamente tattiche, e dove lo scontro si realizza secondo modalità che diverranno tradizionali.
Pisa: il Ponte di Mezzo nel XVII secolo
Il Diario di Cesare Tinghi, continuato dopo la morte dell'autore da un anonimo compilatore, ci permette di colmare in gran parte le lacune della cronologia delle battaglie per i primi quarant'anni del secolo XVII. Da esso si ricava come il Gioco del Ponte fosse un avvenimento abituale dei festeggiamenti che, nel corso del Carnevale allietavano il soggiorno della corte a Pisa. Il Gioco si inseriva ogni volta in contesti festivi di particolare e ricchezza, in cui si alternavano pali per acqua e per terra, giostre, tornei e sbarre in piazza, feste da ballo e commedie a Palazzo e nella Sala dei Consoli del Mare. La Battaglia del Ponte viene spesso presentata dal Tinghi come un'iniziativa dei signori pisani, desiderosi di "dare un poco di gusto et mostrare la lor interna devozione" ai Granduchi, e l'intervento dei Medici in tutte queste edizioni dei primi del Seicento è a più riprese documentato nel diario. Membri della famiglia Granducale prendevano a volte il comando di una delle due parti (nel 1604 troviamo come generali Don Cosimo Medici e Don Antonio Medici, nel 1605 ancora Don Cosimo Medici, nel 1606 Francesco Medici e nel 1618 Don Lorenzo Medici); ruoli di comando venivano pure affidati a personaggi inseriti nell'apparato militare mediceo (Capitani di Galera, Capitani della Guardia, Capitani dei Cavalli) ed anche a rappresentanti dell'aristocrazia pisana. Questa compartecipazione al Gioco di esponenti dell'entourage mediceo e di nobili locali riguardava anche l'aspetto finanziario, Cristina di Lorena prima, e Maria Maddalena d'Austria dopo, erano solite armare una o più squadre "dalla parte del Palazzo" mentre "dalla parte del Commissario" troviamo spesso, tra gli armatori locali i nomi di altri membri della famiglia Medici. A ben osservare, in tutto questo primo arco del secolo, non solo il Gioco del Ponte, ma l'intero sistema festivo del Carnevale pisano è costruito intorno alla presenza dei Granduchi.
Persino il teatro ne resta profondamente condizionato: solo con la metà del secolo si manifesterà a Pisa, e con ritardo, l'esigenza di fondare un Teatro pubblico ad uso cittadino.
Dalle scarse indicazioni che possediamo sulla composizione sociale delle squadre nel 1624 (nelle liste dei combattenti di tre squadre solo di rado i nomi sono associati ai mestieri) appare comunque chiara la compresenza di contadini e rappresentanti dell'artigianato minuto. I contadini dovevano essere concentrati soprattutto nelle squadre dei sobborghi (Contadini di S. Michele nel 1624), ma essere pure presenti in gran numero dall'una e dall'altra parte, come esplicitamente afferma un documento di quell'anno (ASF, Acquisti e Doni, filza 142, ins. 8) e come implicitamente si ricava dai Capitoli (ibid.) che cercavano di frenarne gli eccessi di faziosità. Non assolutamente accertabile è il grado di partecipazione del piccolo artigianato, anche se lo spettro delle professioni citate è sufficientemente indicativo (navicellai, legnaioli, funaioli, scalpellini, fornai, calzolai, materassai...). Più di una volta il nome di una squadra (Cuoiai nel 1618 e nel 1623; Pescatori nel 1618)o l'ambito del suo reclutamento (Arsenale nel 1623) lasciano presupporre un identità di componenti sociali.
Verso la metà del seicento una serie di fattori concomitanti andavano determinando la progressiva trasformazione del Gioco. Già dopo la morte di Ferdinando I (1609) la scena del Carnevale pisano si era fatta più povera; nel diario del Tinghi si riscontrano con sempre maggiore frequenza le assenze dei granduchi di Pisa durante il periodo di Carnevale; essi rimanevano a Firenze o vi facevano ritorno per le feste. A partire dagli anni Venti poi, secondo quanto riferisce il diario del Tinghi, a Livorno più che a Pisa si svolgeva gran parte dell'attività di rappresentanza in occasione di arrivi illustri; nel 1638 i Granduchi vi trascorrevano "con grande allegria" tutto il Carnevale: "una Luminara bellissima sulle galere" "un Calcio in livrea.... con superbissime livree", "parecchie commedie all'improvviso" allietano il loro soggiorno con una varietà di spettacoli che, quasi in competizione, Pisa imiterà solo l'anno successivo. Esempio, anche questo, dell'attrazione esercitata da Livorno, sola città in espansione, sia economica che demografica, in rapporto a Pisa, spopolata dall'epidemia del 1630 e stremata dalla generale crisi di quegli anni.
Sebbene scarse siano le fonti relative al Gioco nella seconda metà del Seicento (costituite soprattutto da disfide e componimenti poetici) esse testimoniano tuttavia di una trasformazione complessiva del suo significato. L'elemento più appariscente è costituito dalla progressiva scomparsa della visione cavalleresca dello scontro, che in passato si era espressa in una vasta gamma di valori (amore, fedeltà, fortezza e virtù spesso contrapposte alla fortuna dell'avversario), sostituita invece da una visione più marcatamente agonistica, che fa emergere in modo quasi esclusivo il carattere ludico e competitivo del combattimento. A partire dalla metà del Seicento i firmatari delle disfide non sono più condottieri dall'identità eroica e favolosa (Palamedoro, Copiamor d'Anglate...), ma cavalieri anonimi che rappresentano la Parte. I componimenti poetici d'occasione (di cui abbiamo ampia documentazione a partire dal 1661) sono le testimonianze più frequenti della faziosità del Gioco che tocca spesso accenti di soldatesca millanteria e di aperta derisione delle squadre avversarie (ad esempio i Leoni diventano "tante pecoracce", i Dragoni "sputano fiele"). Questi mutamenti, benchè non dipendono esclusivamente dal radicamento del Gioco, esprimono tuttavia in modo significativo il carattere locale che esso viene assumendo quando si esaurisce l'ingerenza diretta dei Medici nella sua organizzazione. Questo tipo di trasformazione, legata all'accentuarsi del carattere "sportivo" e di "massa" del Gioco trova anche altrove le sue conferme. Innanzitutto il fissarsi del numero delle squadre a 12 (6 per fazione) presuppone una certa organizzazione del reclutamento ed implica da parte dei giocatori, come dei fautori e degli spettatori, l'istaurarsi di legami particolari e continui con ognuna di esse.
L'impatto di massa del Gioco ci appare evidente nelle cifre: nell'anno 1661 si presentarono al combattimento circa 600 combattenti per parte. Un numero di 1.200 uomini, compresi all'incirca tra i 18 e i 45 anni, rappresentava senza alcun dubbio una grossa percentuale di coloro che potevano essere considerati abili al Gioco in Pisa e nel circondario. Del resto i disordini accaduti proprio in quell'occasione resero necessario l'intervento di truppe di soldati che impedirono, disperdendo la folla degli armati, un gioco che si presentava particolarmente fazioso e violento.
Con il 1672 venne introdotta la pratica delle battaglie numerate, cioè a numero uguale di combattenti per parte (generalmente 320); queste novità è sintomatica della necessità di mettere in opera meccanismi di selezione dei combattenti e un maggior controllo al momento dell'esecuzione del Gioco, si arginava così una situazione che in alcuni casi minacciava di degenerare. Questa norma comportava una radicale trasformazione della fisionomia del Gioco e conteneva in sè i germi di ogni successivo sviluppo verso forme di organizzazione sempre più elaborate. E' ben evidente come la parità di forze delle due parti che accentuava il carattere di game ponesse in primo piano l'elemento della competenza del Gioco come insieme di regole conosciute e riconosciute.
Pisa: il Ponte di Mezzo nel XVIII secolo
Nel periodo dal 1672 al 1713, anno in cui Camillo Ranieri Borghi pubblica la sua Oplomachia Pisana, la battaglia si era svolta quasi tutti gli anni; a partire dal 1672 poi, assieme alla battaglia numerata che richiedeva un complesso apparato, si praticava una battaglia ordinaria nel giorno di S. Antonio che poteva essere promossa da chiunque, ottenuta di battere il tamburo. La battagliaccia, "volgarmente detta a chi monta monta", conservava quindi le caratteristiche dello scontro di vecchio tipo, pur non differenziandosi sostanzialmente, "quanto alla sostanza della condotta, e del combattimento" dalla battaglia generale. Essa era "ordinata a spese particolari della novella gioventù"che veniva istruita nelle regole del Gioco dai soldati veterani; i giovani giudicati più valorosi venivano poi prescelti per partecipare alla battaglia generale.
L'esistenza dei veterani e di una vera e propria forma di reclutamento manifesta in modo chiaro il carattere quasi istituzionale assunto dal Gioco tra il XVII e il XVIII secolo. L'intera città sembra, nella testimonianza del Borghi, non solo partecipare al Gioco, ma vivere in esso. "La gara delle predette fazioni giunge a maggior segno, perchè i pisani sono in essa generati, allevati, ed istruiti: chiunque e dall'intendere, che i piccoli fanciulli in quei giorni, che sono interposti dalla disfida alla battaglia, con pugni, con calci, con morsi, con sassi, e simili si percuotono e malamente si trattino per il Viva del loro partito, potrà argomentarne la qualità della passione degli adulti e degli uomini, dalla quale non vanno esenti nè meno le donne medesime"(ibid., p.56). Del resto sebbene, come abbiamo visto, le spese per l'abbigliamento dei combattenti restassero soprattutto a carico della nobiltà che ricopriva i ruoli più importanti, l'abitudine secolare del Gioco doveva aver condotto non pochi partecipanti a possedere privatamente di che armare: "poche sono quelle case, che di tali armi non abbiano, perchè pochissimi sono quei pisani, che non abbiano giocato o che non giochino" (ibid., p.96)
Questa tradizione che rappresentava per certuni un onere sempre più gravoso, contribuiva d'altra parte all'incremento di una serie di piccole attività cittadine sia nel settore dell'artigianato che in quello dei "servizi". L'elemento dell'utile economico si presenta agli inizi del secolo XVIII come una delle ragioni, e non l'ultima, di sopravvivenza del Gioco.
Contemporaneamente al fissarsi sempre più preciso della regolamentazione assistiamo ad un organizzazione, anch'essa sempre meglio definita, del sistema di finanziamento del Gioco. Nel 1732 si istituzionalizzano addirittura "le contribuzioni", da tempo usuali, di albergatori, osti, bottegai e postieri, regolate, in proporzione all'utile ricavato, dal Giudice del Commissario.
Un'altra considerevole fonte di entrate, che si aggiungeva a quella delle collette private e pubbliche, era costituita dagli appalti per la costruzione e l'affitto dei palchi per gli spettatori, gestiti direttamente dalle parti. A partire dalla metà del secolo XVIII il Gioco appare dilaniato dal conflitto d'interessi contrastanti e tutti, ormai, profondamente radicati. D'altro canto la sua esistenza appare condizionata dal sostegno di un gran numero di aderenti alle parti: i contributi di costoro sono sempre più frazionati fino all'introduzione di vere e proprie rateizzazioni triennali, riscontrabili a partire dalle liste dei debitori delle fazioni.
Nelle edizioni successive al 1761 si assiste infatti a una capacità via via minore da parte dei nobili di assolvere agli impegni finanziari riguardanti le spese generali per il Gioco e contemporaneamente a un aumento dei contributi dei cittadini e degli artigiani.
I nobili pur continuando a gestire formalmente il Gioco non ne condizionano più in modo assoluto la sopravvivenza.
La carenza della gestione del Gioco trovava un compenso nell'accentuarsi dei controlli di polizia sui reclutati e sull'esecuzione del Gioco; il carattere di repressione dei bandi, che si susseguono sempre più minuziosi nell'ultima fase della sua storia, testimonia l'esistenza di una faziosità, documentata anche dalla registrazione di reiterati episodi di violenza (ASP, Fiumi e Fossi, filza 1136). Dai primi del secolo XVIII fino all'inizio del regno di Pietro Leopoldo (1765) il Gioco contava quasi trenta edizioni. L'insediamento del nuovo Granduca significò una brusca interruzione della periodicità triennale; durante il suo regno ebbe luogo solamente tre volte: nel 1767, nel 1776 e nel 1785, data che segna, per così dire, la sua fine, se si considera l'edizione del 1807, come di fatto lo fu, un avvenimento unico e destinato a non ripetersi.
Pietro Leopoldo rivelò proprio nei riguardi del Gioco del Ponte, un atteggiamento di totale avversione. L'immagine della finta battaglia pisana si presentava infatti con caratteristiche opposte ai fini politici che il sovrano lorenese si era proposto di perseguire con le attività spettacolari . Egli vedeva nel Gioco un'occasione di disordini, un fomite di discordie e di faziosità e lo considerava inoltre strettamente legato agli interessi politici e culturali dell'aristocrazia cittadina: "La frequenza del giuoco del ponte, dei partiti che nascevano dal medesimo, animavano nel popolo lo spirito di partito e di ferocia e dipendenza da certe famiglie, di gusto alle risse e seguitavano ad esser rozzi".
L'ultima edizione storica nel 1807, dopo ventidue anni di sospensione, acquista la dimensione del revival caratterizzato da un evidente esaurimento della consistenza reale del Gioco e delle sue connotazioni immaginarie.
Tutta l'ultima edizione rivela la distanza incolmabile che la separa dalla tradizione; l'esaurirsi definitivo delle radici del Gioco nel tessuto cittadino corrisponde ad un impoverimento della sua immagine e a una perdita della sua memoria. D'ora in poi il ricordo, al quale si affida ogni sua reviviscenza, risulterà come una parola priva della propria lingua.
Fonte:
Il Gioco del Ponte di Pisa
memorie e ricordo in una città
Vallecchi 1980